lunedì 27 dicembre 2010

Oltre la narrazione: il nostro progetto Editoriale n. 21 della rivista “Essere comunisti”

Editoriale n. 21 della rivista “Essere comunisti”

Sono settimane cruciali. Il voto di fiducia strappato dal governo Berlusconi il 14 dicembre in entrambi i rami del Parlamento pone fine alla prima fase della crisi di governo.
Ma lungi dal delinearsi come una vittoria redentrice, dalla quale l’esecutivo possa uscire realmente rafforzato e con la concreta possibilità di allargare e mantenere fino a fine legislatura la base parlamentare della propria maggioranza, l’impressione netta che si ricava dalla triste vicenda della compravendita dei deputati è che un’intera stagione politica sia giunta al capolinea.
È evidente cioè che il “terzo polo” – sempre che si possa assegnare a questo termine il significato pieno di un’alleanza politica organica tra forze che ad oggi appaiono ancora divise – ha perso una battaglia, e una occasione ghiottissima. Tuttavia, l’ipotesi che, con la sfiducia respinta, il governo Berlusconi possa proseguire in sella come se niente fosse, con una maggioranza di 3 deputati e con il risentimento montante di metà Parlamento e di gran parte del Paese, appare l’ipotesi meno probabile.

Rimangono in campo diverse opzioni: Berlusconi potrebbe ora decidere, da una posizione di forza, di tornare al voto; oppure potrebbe condurre, direttamente o tramite altri, una transizione di centro-destra che abbia al centro la riforma della legge elettorale. Molti scenari sono cioè ancora aperti, compreso quello che vedrebbe lo stesso Berlusconi scegliere una soluzione di garanzia (come già fece nel 1995 all’indomani del “ribaltone”) per un governo di transizione allargato a nuove forze parlamentari disponibili.
Tuttavia, il voto del 14 – le contemporanee manifestazioni di piazza, che hanno messo in rilievo una partecipazione di popolo (in primo luogo studenti) a dir poco eccezionale – sembra, proprio per le modalità con le quali è maturato e per l’esiguità del vantaggio che consegna a Berlusconi, avere detto una parola chiara: siamo ad una svolta.
Lo ha capito prima di tutti (molti mesi prima di Gianfranco Fini) il Paese reale, così distante dai giochi di palazzo e dalle contraddizioni di potere, che ancora in queste settimane hanno riempito giornali e televisioni, fossero essi i resoconti delle serate mondane del presidente del Consiglio, oppure i dossier sulla salute e sui vizi delle classi dirigenti di mezzo mondo compilati dai funzionari delle Ambasciate e poi incredibilmente trafugati e pubblicati, tramite Wikileaks, in quello straordinario luogo di comunicazione e politica che è la rete.
Un Paese reale che negli ultimi quattro mesi, e pur in presenza di una sinistra divisa e fuori dal Parlamento, si è mobilitato. Il successo della raccolta delle firme in difesa dell’acqua pubblica, le lotte degli studenti e dei ricercatori contro i tagli e la contro-riforma dell’Università, la battaglia di Pomigliano, le lotte operaie contro le mille crisi aziendali, le lotte dei migranti per i diritti: tessere di un mosaico che indica, anche in Italia, che la storia non è finita e che il Paese non è né arreso né pacificato. Anzi: proprio nella cupezza di questa crisi di governo, trova la forza per moltiplicare la propria tensione trasformatrice e tenere vivo il conflitto sociale la cui chiave di volta sta nel 16 ottobre e cioè in quella straordinaria unità di lavoratori, migranti, donne, pensionati, intellettuali e studenti stretta intorno alla classe operaia metalmeccanica.
Il Paese reale si organizza e prepara un’alternativa dentro la crisi di un’economia risucchiata ormai da due anni organicamente dentro il vortice della decadenza occidentale capitalistica.
650 mila lavoratori in cassa integrazione a zero ore; la disoccupazione all’11%; i salari italiani ricacciati al peggiore valore reale degli ultimi undici anni, con un peso tra il 17% e il 19% più basso di quello medio europeo; la necessità paventata da molti di una nuova manovra correttiva a inizio anno, che già si profila come l’ennesima stangata per il lavoro dipendente e i conti delle famiglie proletarie.
E, contestualmente, uno stato di salute roseo per i conti delle grandi imprese, gli stipendi dei loro manager, i loro utili, come con tutta onestà mettono in evidenza i dati pubblicati recentemente dal Sole-24 ore (nell’anno 2009 i profitti delle 500 imprese più importanti sono aumentati del 335% con una tendenza identica per il 2010).
La crisi e la decadenza del capitalismo occidentale e, al suo interno, la crisi di quel centro-destra che solo due anni fa ha vinto le elezioni: questo è lo scenario nel quale si collocherà la nuova pagina della storia italiana che leggeremo nei prossimi mesi.
Si tratta però di contribuire alla sua scrittura, tenendo bene in mente ciò di cui Immanuel Wallerstein, intervenendo sul manifesto del 30 novembre scorso, ha avvertito con chiarezza estrema: la bocciatura di Obama alle elezioni di medio termine statunitensi (così come, potremmo dire, la bancarotta dei Paesi strutturalmente più fragili dell’Europa, come dimostra da ultimo il caso drammatico dell’Irlanda) dice della profonda difficoltà, in questa fase storica, di attuare politiche riformatrici nei Paesi a capitalismo avanzato.
D’altra parte, come ha scritto il 3 dicembre Alfonso Gianni (sempre sul manifesto) in relazione al nostro Continente, proprio sulla capacità di rifiutare i diktat monetaristi dell’Unione Europea, alimentando ulteriormente la crisi (il risanamento a tappe forzate del debito pubblico produce esattamente questo), si misura la possibilità di un futuro per la sinistra europea.
Quello che ci dicono Wallerstein e Gianni è forse il primo insegnamento da tenere in mente, ed incide immediatamente – con una certa dose di contraddittorietà che attiene proprio alle scelte sin qui compiute da una parte della sinistra italiana (a partire da Sinistra Ecologia Libertà) – sulla politica delle alleanze.
È per questa difficoltà strutturale di rovesciare, nell’Occidente capitalistico, le forme dell’economia dominante che il nostro progetto politico ha una discriminante introduttiva chiara: la necessità inderogabile di allearsi con le forze democratiche per sconfiggere elettoralmente, e in via definitiva, Berlusconi e il suo blocco di potere reazionario (Lega e Pdl sono a tutti gli effetti i rappresentanti delle peggiori istanze sociali del nostro Paese e di una cultura padronale, razzista, autoritaria e intimamente illiberale), prendendo atto che non ci sono le condizioni – oggi – per costruire un’alleanza di governo. La quale, come abbiamo visto anche con la recente esperienza del governo Prodi, nascerebbe debole e soprattutto sfavorevole per le forze che lavorano alla trasformazione del modello sociale proprio sul piano della capacità strutturale di realizzare autentiche riforme.
Altra cosa è invece, come andiamo ripetendo da mesi, provare a costruire un’intesa basata sulla difesa della democrazia, della Costituzione e su alcune misure di giustizia sociale. Ciò potrebbe costituire, anche sul piano dei contenuti, il cuore di un’alleanza politica con le forze moderate. In altre parole: non ci sono le condizioni storiche, strutturali e di fase per un accordo pieno di governo (e cioè per condividere, con qualche possibilità di successo, la responsabilità di gestire un’economia capitalistica in crisi inserita in un quadro di vincoli e di obblighi monetari e finanziari di stampo neo-liberista), ma possiamo lavorare per strappare alcuni impegni che comportino significativi benefici per le classi che vogliamo rappresentare.
Secondo elemento di riflessione: il quadro politico-istituzionale italiano è già mutato. Registriamo con soddisfazione la sconfitta definitiva del tentativo di costruire un sistema bipartitico, ma siamo in presenza anche di una forte crisi del modello bipolare. La nascita del “terzo polo” e ancor prima lo sfarinamento dei due blocchi palesano il fallimento dell’opzione bipolare e cioè, nei fatti, di quella tendenza ad espellere, con la cancellazione del proporzionale dal modello elettorale, le aggregazioni politiche “estreme” e, per quanto ci riguarda, le soggettività critiche e anti-sistemiche. Ciò significa che non solo si determina, d’ora in avanti e pur dentro non poche contraddizioni, un campo fertile per il ritorno al proporzionale, ma che si dà la possibilità di uno spazio politico di alternativa liberato dall’ossessione centrista implicita nel modello bipolare.
Possibilità potenziale, non certezza già conquistata.
Tutto dipende dalla volontà soggettiva delle forze che compongono questo campo dell’alternativa e dalle modalità con cui intendono determinarlo.
Per quanto riguarda la Federazione della Sinistra il progetto è delineato e, da questo punto di vista, è privo di ambiguità. Pur dentro alcuni limiti che non vanno assolutamente sottovalutati (il deficit di democrazia; i ritardi imposti da componenti ostili al processo unitario; i limiti nella relazione con le altre forze politiche della sinistra, come nel caso del ripetuto riaffiorare di pulsioni minoritarie e settarie), il congresso nazionale di Roma della Federazione della Sinistra ha indicato una prospettiva importante, che ruota attorno ad alcuni cardini.
Il primo: rilanciare a tutto campo un’offensiva unitaria – nelle forme prima ricordate – nei confronti delle forze democratiche.
Il secondo: ricostruire il campo della sinistra d’alternativa in autonomia dalla socialdemocrazia a partire dai contenuti e dalle lotte comuni.
Il terzo: rifondare, all’interno della sinistra, un soggetto politico organizzato comunista che ponga fine all’astrusa irrazionalità rappresentata dalla persistenza di due partiti comunisti entrambi votati, se divisi, alla mera testimonianza. Da questo punto di vista il congresso della Federazione ha registrato un passo avanti importante: non ha più alcun senso che dentro lo stesso soggetto politico (la Federazione non come cartello elettorale ma come soggetto federato a tutto tondo) esistano due distinti partiti comunisti. Con i tempi necessari, con modalità condivise, va avviato il processo che sappia riunificare il partito della Rifondazione comunista con quello dei Comunisti italiani. Ovviamente ciò non è in contraddizione con il rafforzamento della Federazione della Sinistra in quanto tale, anzi. Il campo di azione e di coinvolgimento della FdS è ben più ampio di quello di un partito comunista, poiché si propone di raccogliere al suo interno, sulla base di una comune opzione anticapitalista e di autonomia dal centro-sinistra, forze socialiste, ambientaliste e di movimento.
Questo per quanto concerne noi. Ma Sinistra Ecologia Libertà?
Sel si muove su un altro progetto. Cerco di evidenziare quelli che ritengo i limiti più significativi. Il primo è legato alla pressoché assoluta dipendenza di quel soggetto politico dalle fortune del suo leader. Sel è, oggi, un partito ampiamente dominato dalla figura e dal carisma personale del suo esponente più autorevole, con tutto quello che ciò comporta. È il partito di Nichi Vendola prima che dei suoi iscritti, del suo gruppo dirigente o della sua base elettorale.
Secondo limite: Sel gioca una partita che proprio nella sua spregiudicatezza porta il rischio dell’avventurismo. Si badi bene: è una tattica che ha incassato negli ultimi mesi una sequenza di successi invidiabile, come dimostrano i sondaggi e la vittoria di Pisapia a Milano, e che sembra non sia destinata ad arrestarsi visto che anche a Bologna la candidata della sinistra alle primarie di coalizione Amelia Frascaroli potrebbe prevalere sul candidato proposto dal Partito democratico.
Rimane, tuttavia, che la linea politica di Sel è troppo dipendente da variabili precarie: il voto a marzo, l’effettiva convocazione delle elezioni primarie (al contrario di quanto Bersani vorrebbe, sempre più preoccupato per la tenuta della sua “ditta”), la vittoria di Vendola in entrambe le consultazioni. Condizioni che, se pure fossero tutte e integralmente soddisfatte, non metterebbero lo stesso Vendola al riparo dai rischi strutturali cui accennavamo in precedenza (il caso di Obama e dello stesso Zapatero in Spagna dovrebbero indurre a maggior cautela). Si tratta, in altri termini, di scorciatoie che non porterebbero con ogni probabilità al punto di arrivo necessario ed evocato: fare prevalere l’«Italia migliore», raddrizzando il sistema economico e sociale.
Il terzo limite consegue a quanto sin qui osservato e concerne proprio la collocazione politica: l’internità al centrosinistra, l’intenzione ambiziosa di sparigliare le carte per ridefinire i confini e i contenuti del campo democratico, la valutazione secondo cui ormai non avrebbe più senso parlare di due sinistre (una di alternanza, l’altra di alternativa), entrano oggettivamente in collisione con le nostre previsioni e con il nostro investimento strategico.
Si delineano dunque, seppure con diversi gradi di chiarezza, due progetti differenti rispetto ai quali a nulla serve alzare una cortina fumogena che ottenebri i rispettivi assunti e i rispettivi obiettivi.
La sfida è un’altra: vincere le resistenze di chi vorrebbe continuare ad accontentarsi di due progetti non comunicanti e presuntamente autosufficienti e unire queste due opzioni a partire da ciò che già nella realtà politica e nella pratica sociale del Paese ha unito la Federazione della Sinistra e Sinistra Ecologia Libertà: la campagna sull’acqua pubblica, il 16 ottobre dei metalmeccanici, la lotta della cultura, della scuola, dell’università e della ricerca pubblica. Unirle in un patto d’unità d’azione che profili una sinistra plurale, dentro la quale ognuno persegua il proprio obiettivo ma con la consapevolezza di doversi mettere, per potere realmente cambiare i fragili equilibri della società italiana, al servizio di una causa comune che ha, come proprio le mobilitazioni di questi mesi dimostrano, un bacino di consensi ancora significativo.
In questo senso la Federazione della Sinistra è un embrione fecondo, perché contiene in nuce due progetti paralleli e al contempo complementari, entrambi necessari e indispensabili: la ricostruzione di un partito comunista forte e unito e la ricomposizione di un campo della sinistra d’alternativa egemonico e di massa.
O passiamo da qui, oppure la strada, proprio quando si intravede la fine dell’epoca berlusconiana, rischia di condurci altrove, lontano da quello che siamo e da quello che dobbiamo essere.

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